mercoledì 29 giugno 2016

Spaghetti alla puveriello (come li ricordo io e come piacciono a me)

Di recente mi è capitato di parlare di questa classica ricetta napoletana, purtroppo ormai quasi dimenticata, con varie persone e ho constatato che pochi ne avevano sentito parlare, molti l’hanno subito associata alla carbonara con la quale ha in comune gli ingredienti base (pasta e uova), nessuno l'aveva mai provata. 
      
Paprika Dolce e Cannella propone due foto: a sx con l'uovo appena "adagiato" e 
a dx il piatto dopo aver mischiato (operazione da eseguire, secondo me, nella tiella)
Tanti hanno storto il naso a causa del diffuso terrore per le uova (alcuni addirittura sostengono che non se ne debba mangiare più di uno alla settimana) per non parlare della repulsione nei confronti della nzogna (sugna, strutto). Fatto il mio solito giro in rete ho letto cose “orripilanti” a cominciare dalla traduzione di puveriello con "poveruomo", termine per lo più usato in senso dispregiativo ... provate a dire pover’omm a qualcuno.
Dal mio punto di vista, gli orrori continuano con il con la raccomandazione di preparare le uova “ben cotte”, l’uso di olio extravergine (è di questi giorni la notizia che molti venduti per tali non lo sono affatto, ma in questo caso il problema è il sapore) o addirittura del burro (sacrilegio!!!), le ridicole porzioni considerato che dovrebbe essere piatto unico (300g per 4 persone? ... sì e no ci mangiano 2), “adagiare” l’uovo sulla pasta precedentemente distribuita nei piatti (quindi si sarà già incollata visto che pochi cucinano veramente al dente e oltretutto risulterà scondita) senza parlare di varianti fantasiose a questo piatto povero per il quale sono necessari solo 3 ingredienti (pasta, strutto e uova) con l’aggiunta facoltativa di formaggio grattugiato (rigorosamente caciotta secca o pecorino, assolutamente non parmigiano, grana o simili) e pepe o peperoncino a seconda dei gusti.

Sembra che Amareilsapore esegua abbastanza bene ma usi più pepe che uova 
Veniamo alla semplice e rapida preparazione per la quale basta avere un minimo di dimestichezza con i tempi di cottura e ovviamente una caccavella (pentola) capiente ed una tiella (padella) adatta alla quantità di pasta. Infatti, al contrario di quanto suggeriscono quasi tutti (mettere l’uovo fritto sopra la pasta) si dovrà fare l’esatto contrario cioè mettere la pasta sulle uova e mischiare il tutto nella tiella. Faccio un paragone culinario: secondo voi una pasta e fagioli come si deve, a prescindere dalla scelta degli ingredienti accessori (cipolla, pomodoro, aglio, sedano), sarà più saporita cuocendo la pasta insieme ai fagioli (dopo  averli cotti ...) nella loro acqua o aggiungendo i fagioli sopra alla pasta? Nel secondo caso sarebbe più opportuno chiamarla “pasta con fagioli” e nell'esempio precedente vermicelli con uovo fritto”. 
Torniamo a noi ... scegliete la vostra trafila preferita (può variare da spaghetti a vermicelli o addirittura i vermicelloni ... i bucatini proposti da qualcuno li trovo esagerati) di una buona qualità di pasta, procuratevi uova a sufficienza nella proporzione di almeno un uovo per ogni 100g di pasta, tenete a portata di mano la nzogna e gli ingredienti opzionali se pensate di usarli. La cottura delle uova e della pasta deve procedere in contemporanea, vale a dire che l’albume (il bianco) delle prime dovrà essere appena cotto e il tuorlo (il rosso) quasi crudo quando la pasta sarà al dente e quindi scolata immediatamente e versata nella tiella sopra le uova, subito dopo aver spento il fuoco. Così facendo tutto il piatto si colorerà più o meno uniformemente con il tuorli che non cuoceranno completamente e il bianco d’uovo ancora tenero si frantumerà in tanti pezzetti. 
Nella foto a sinistra gli spaghetti alla puveriello preparati in una wok ... se da un lato lo chef ha giustamente mischiato prima di impiattare, dall'altro è evidente che ha fatto cuocere troppo i tuorli che quindi hanno consistenza e aspetto di uova strapazzate ben cotte.
Chiudo con i problemi di questo squisito piatto che non sono, come molti staranno pensando, colesterolo e calorie bensì la difficoltà di procurarsi uno strutto di qualità e delle uova veramente "paesane". Una qualunque carbonara è certamente più calorica e il numero di uova utilizzate sarà simile, piatti con panna e speso tanto formaggio hanno certamente più calorie e più colesterolo, per non parlare della quantità (e spesso scarsa qualità) dei grassi contenuti nei dolci, merendine, biscotti e barrette e per finire pensate alla differenza fra un uovo fresco e quelli in polvere che senza rendervene conto mangiate in quantità ...
Una volta ogni tanto un bel piatto di spaghetti alla puveriello non può fare che bene! ... accompagnato da un buon bicchiere di vino.

domenica 26 giugno 2016

Occhio a questi 2: Cristina Gallego e Ciro Guerra (cine colombiano)

Come anticipato nel precedente post ieri mi sono goduto Los viajes del vientosecondo film di Ciro Guerra (quello che mi mancava dei suoi tre), e devo dire che la mia stima per questo giovane regista colombiano è ulteriormente cresciuta. Per questo motivo ho voluto scrivere questo post allargando il tema alle cinematografie latine in genere ed a quella colombiana particolare, quasi  del tutto sconosciuta in Europa,  mettendo anche a confronto le tre opere di Guerra, per certi versi molto diverse fra loro ma per altri molto simili, e affrontando un discorso un po’ più ampio della mia solita micro-recensione appena pubblicata nella raccolta 2016: un film al giorno.
Problemi economici e di distribuzione hanno da sempre limitato la produzione e quindi la distribuzione di film dell’America Latina il cui livello medio, in sostanza, non è assolutamente inferiore a quelli occidentali e fra essi ce ne sono veramente di ottimi. Ciò è ampiamente dimostrato dai successi ottenuti negli ultimi anni dai vari Iñárritu (Oscar con Birdman e The Revenant, oltre alla Nomination per Babel), Cuarón (Gravity), e fra i migliori di lingua non inglese degli ultimi 10 anni ricordiamo le Nomination per Il labirinto di Pan (Guillermo Del Toro, Messico), La teta asustada (Claudia Llosa, Perù), Biutiful (Iñárritu, Messico), No (Larrain, Cile), Relatos salvajes (Szifrón, Argentina), El abrazo de la serpiente (Guerra, Colombia) e l’Oscar di Il segreto nei suoi occhi (Campanella, Argentina). Vari di questi contano anche altre Nomination e sono pluripremiati nei Festival più importanti di tutto il mondo.
      
Questo non deve assolutamente meravigliare in quanto è la cultura dell’America Latina in genere ad essere di eccellente livello anche se molti se ne ricordano solo di tanto in tanto. A sostegno di questa affermazione basterebbe ricordare alcuni grandi della letteratura che non hanno avuto il successo e la diffusione che meritavano solo per non essere nati in Europa o negli Stati Uniti e per non scrivere in inglese: Gabriel García Márquez, Mario Vargas Llosa, Rómulo Gallegos, Jorge Luis Borges, Julio Cortázar, solo per citarne alcuni.
Ognuno dei suddetti (i primi due hanno anche ottenuto il Nobel per la letteratura, ma solo il primo è veramente famoso) ha fornito materiale per numerosi film che sono diventati pietre miliari del cinema hispanoamericani. 
Le diversità culturali e di ambienti dei vari paesi offrono davvero infinite possibilità ai cineasti “illuminati” di realizzare pellicole pressoché uniche che, agli occhi di noi europei, sono anche estremamente interessanti dal punto di vista antropologico. Fra i più giovani di questo gruppo di registi si distingue senz’altro Ciro Guerra (classe 1981) il quale però, purtroppo per noi cinefili, in 12 anni ha diretto vari cortometraggi ma solo 3 film, dei quali è anche sceneggiatore:
  • La sombra del caminante (2004)
  • Los viajes del viento (2009)
  • El abrazo de la serpiente (2015) 
Uno ogni 5 o 6 anni è veramente poco, ma considerato che ha ancora solo 35 anni e che si è fatto apprezzare a livello internazionale grazie alla recente Nomination agli Oscar 2016, dobbiamo essere speranzosi.

Prima di passare alle pellicole di Guerra, vorrei aggiungere poche parole relative alla sua vita personale e professionale, indissolubilmente intrecciate. Infatti, a soli 17 anni conosce Cristina Gallego, di tre anni più grande, studentessa di cine e televisione e con lei fonda nello stesso anno (1998) la casa di produzione Ciudad Lunar. Dicevo di un rapporto indissolubile in quanto i due sono sposati e in questi quasi due decenni Cristina è la produttrice ufficiale di tutte le opere di Ciro, oltre ad essere stata produttrice esecutiva di altre pellicole colombiane.
Cristina è nata a Bogotà ed è ultima di 10 fratelli ma i genitori sono di origine contadina e si trasferirono nella capitale per avere maggiori opportunità di lavoro e per far studiare i figli. Ciro è nato invece a Rio de Oro, piccola cittadina di 14.000 abitanti, 600km a nord di Bogotà, praticamente nel mezzo della selva, quasi al confine con il Venezuela. Ciò la dice lunga in merito alle scelte delle sceneggiature e alla sensibilità con la quale trattano temi quali la sopravvivenza della cultura indigena, la vita dei campi e nei villaggi, la musica tradizionale, gli spostamenti a piedi, a dorso di asino o sulle spalle di qualcuno, la navigazione lungo i corsi d’acqua. E questa sensibilità non si limita ai contenuti ma anche alle immagini che, per me che sono escursionista e viaggiatore incallito oltre che cinefilo, sono assolutamente affascinanti e dimostrano il grande rispetto e conoscenza che Guerra ha dell’ambiente naturale e della cultura dei nativi.
Certamente non sono arrivati a questo punto per essere figli di papà, né perché erano raccomandati e meno che mai bamboccioni ...
Dei tre film solo Los viajes del viento è interamente a colori e come El abrazo de la serpiente è in formato 2,35:1, proporzione che esalta i paesaggi spesso dominati da linee orizzontali come l’acqua ma, nel caso del primo, anche da ambienti desertici.
Nei primi due film Guerra ci porta in realtà povere, in ambienti nei quali la gente vive con poco, pochissimo ma sempre con grande dignità e ancor maggiore altruismo. Nell’ultima parte del secondo sono presenti molti indigenas che, seppur di altre etnie, costituiranno la quasi totalità degli interpreti del più recente El abrazo de la serpiente.

Parlando del cinema colombiano in generale, c’è da sottolineare che dal 1978 al 1993 funzionò la FOCINE (ente di sviluppo cinematografico) e furono prodotti vari buoni film che ebbero anche un discreto successo all’estero come, per esempio, La estrategia del caracol, Rodrigo D. No Futuro, La gente de la Universal.
Dopo un decennio durante il quale si poteva solo contare su coproduttori stranieri, finalmente nel 2003 fu promulgata una nuova legge per il cinema e da allora sono stati prodotti più film fra i quali sempre più spesso se ne trovano di buona qualità (María llena eres de gracia, Soñar No Cuesta Nada, Paraiso travel).
Una raccomandazione agli appassionati di cinema, la solita ogni volta che mi imbatto in buoni film: non vi perdete le pellicole di Ciro Guerra che, anche se poco conosciute, riservano molte piacevoli sorprese.
(notizie tratte da www.proimagenescolombia.com)

venerdì 24 giugno 2016

Cult movies e sorprese, reminder e suggerimenti

Eccomi al giro di boa ... ieri ho guardato il mio 183° film dell'anno, metà del mio obiettivo di 366 nel 2016, in anticipo di qualche giorno sul semestre completo. Tale “evento” ne meritava uno significativo, classico, unanimemente considerato un una pellicola che ha segnato la storia del cinema e la scelta è caduta su 2001: A Space Odyssey (Stanley Kubrick, 1968).
   
Continuo ad alternare visioni di classici a quelle di film che si possono trovare solo in rete o oltreoceano, e di alcuni che pur essendo giunti in Italia (spesso con titoli improponibili) sono pressoché irreperibili. Fra questi si scoprono talvolta piccoli gioielli e, per quanto riguarda le cinematografie considerate minori, sempre sorprendente notare come con budget talvolta ridicoli si possano produrre pellicole più che degne che in quanto a linguaggio cinematografico non hanno niente da invidiare a ben più quotati prodotti europei ed americani.
Ai giovani appassionati di cinema che talvolta trascurano il passato vorrei segnalare qualche film fra gli ultimi 33 visti (in un precedente post riassuntivo scrissi della terza cinquantina di film visti). Fra i cult di vario genere, oltre 2001: ... (1968, fantascienza), ho rivisto la commedia musicale The blues brothers (1980) e la commedia drammatica Do the right thing (di Spike Lee, forse il suo prodotto migliore), film che sembrano essere assolutamente sconosciuti a tanti under 40 e che meritano di essere guardati o ri-guardati avendo segnato un’epoca pur non essendo all’apice dell’arte cinematografica.
      
Fra i meno conosciuti, ma acclamati dalla critica, segnalo Il Decalogo (Kieslowski, 1989) e soprattutto Compulsion (1959), film molto poco conosciuto di Fleischer, con il grande Orson Welles (pur apparendo solo nell’ultima parte fornisce una ennesima prova memorabile) e con un eccellente bianco e nero quando già il colore era ormai la norma da molti anni. Coevi ed in un certo senso simili per quanto riguarda la fotografia segnalo Sweet smell of success (1957) e The intruder (insolito film di Roger Corman, 1962) che, come Compulsion, sono assolutamente imperdibili.
      
Chi legge le mie micro-recensioni avrà notato che ultimamente sono tornato ad interessarmi delle cinematografie dell'America Latina in particolare approfondendo ulteriormente quella messicana e ricercando in quelle colombiana (con il proposito di proseguire con quelle cilena e cubana delle quali nel complesso ho recuperato una trentina di film). Fra le più recenti ne troverete anche una mezza dozzina  - tutte positive -relative ai colombiani, l’ultima si riferisce a La sombra del caminante, primo lungometraggio di Ciro Guerra (regista di El abrazo de la serpiente, candidato all’Oscar 2016), del quale mi riprometto di guardare a breve anche Los viajes del viento (secondo dei suoi soli tre film).
Tutte le micro-recensioni sono postate nella raccolta

martedì 21 giugno 2016

Passatempi per escursionisti navigati e, soprattutto, curiosi

Di questo tema ho già trattato varie volte, anche se non specificamente, parlando di escursionismo, natura, cartografia e serendipity. Sono tutti argomenti più collegati fra loro di quanto molti pensino e simili serie di connessioni possono applicarsi anche ad altre attività. 
Dei tantissimi camminatori (ormai siamo milioni, da quelli urbani ai trekker più avventurosi ... camminare è di moda) molti preferiscono percorrere itinerari ripetitivi e ben conosciuti, di quelli che appaiono più rassicuranti, lungo i quali si incontrano le stesse persone e si vedono le stesse cose e si può anche procedere con la testa fra le nuvole, casomai con le cuffiette alle orecchie.
Al contrario, ce ne sono altri che non perdono occasione per introdurre varianti ai percorsi noti, spingersi ogni volta un poco oltre i limiti del territorio conosciuto, farsi attrarre da una pianta o da una traccia di sentiero, partire con il preciso scopo di scoprire un itinerario completamente nuovo.

Faccio parte, chiaramente, del secondo gruppo e fra i miei sodali sono abbastanza attivo ma non certo fra i più avventurosi. Mi avvantaggio delle mie capacità di interpretazione di mappe e cartine, in particolare quelle di molti anni fa, per trarre spunti di interesse, immaginare itinerari utili o semplicemente piacevoli, ideare nuovi collegamenti, andare a ricercare sentieri dimenticati.
Un famoso cartografo inglese soleva dire che una delle migliori letture è una carta ben fatta, opinione che condivido in pieno. Talvolta mi capita di passare anche delle ore interpretando una mappa antica, cercando di coglierne lo stile, valutandone l'affidabilità, comparando le informazioni con carte receni e infine tentando di trarne conseguenze.

Il più recente risultato è l'imminente "inaugurazione" di un facile circuito escursionistico reso possibile dalla riapertura di una strada comunale  di Sorrento, in effetti un tratto di essa, un sentiero sterrato attraverso un castagneto. Era un mio vecchio pallino, via Acquacarbone doveva essere un percorso molto frequentato fino a metà del secolo scorso in quanto via più breve fra Sant'Agata e Priora (due frazioni rispettivamente di Massa Lubrense e Sorrento), ma dopo la costruzione del Nastro Verde (tratto della statale 145 sorrentina) quasi del tutto abbandonata.
Tuttavia ho sempre considerato quell'itinerario che taglia in diagonale il versante nord della collina del Deserto estremamente appetibile dal punto di vista escursionistico: ombreggiato, lieve pendenza, lineare, tanta natura (giardino, uliveti e castagneti) e pochi edifici. Mi capitò di parlarne circa un mese fa al Circolo Sorrentino nel corso del mio intervento in merito alla viabilità scomparsa (o inaccessibile) e poi, grazie ad una fortunata serie di incontri, occasioni e disponibilità intravidi la possibilità di rendere di nuovo percorribile quella strada comunale. Grazie alla fattiva cooperazione fra enti, associazioni e volontari, è già di nuovo possibile andare da Sant'Agata a Priora a piedi in meno di mezz'ora (solo 2 km contro i circa 5 seguendo le rotabili) e senza dover salire verso la collina del Deserto ma aggirandola a nord.
Dopo essere andato sul percorso 5 volte in 6 giorni, accompagnato da vari altri volenterosi, ieri con Costantino sono riuscito ad individuare con certezza l’ultimo tratto mancante della strada abbandonata, fino a pochi giorni fa coperto da una jungla (molto spinosa ...) all’interno del bosco di castagni.
Facendoci largo fra la fitta vegetazione abbiamo individuato il tracciato con l’ausilio della mappa, ma soprattutto seguendo logica e osservazione e quindi trovando conforto e conferme in tanti piccoli indizi: un cippo, uno scalino in pietra apparso sotto l’humus, pendenze adeguate, linearità e mancanza di alberi lungo la direttrice, una recinzione, pietre coperte di muschio allineate al margine della traccia, percorso un poco infossato, un tombino,...
Nella foto a sinistra si nota lo scalino in primo piano, venuto allo scoperto dopo aver liberato dalla vegetazione (alta anche oltre 2 metri) questo tratto infossato e prima assolutamente invisibile.
Questo, secondo me, è uno dei vari modi di fare escursionismo in modo estremamente piacevole (anche se talvolta si torna a casa con numerosi graffi e tagli) in quanto si riesce a stare lontani dai percorsi più frequentati. Questi, in particolare nei giorni festivi, sono invasi da masse di pseudo-escursionisti vocianti, che bloccano il sentiero per scattare innumerevoli selfie e spesso lasciano rifiuti  rendendo un piacevolissimo ambiente naturale quasi un inferno urbano (provate a percorrere il Sentiero degli Dei di domenica, fra le 10 e le 14 ...).

Venerdì 24 giugno, alle ore 18.00, si parte dalla piazza di Sant’Agata per il “collaudo” del circuito alle falde del Deserto.

La presenza di vari tratti sterrati richiede l’utilizzo di calzature adeguate. La passeggiata durerà meno di due ore.

sabato 18 giugno 2016

Il tempo: aspettare o iniziare, aspettare o riposare

El tiempo es justiciero y vengador (Il tempo è giustiziere e vendicatore), frase resa celebre dal testo di una canzone messicana (Hace un año), adattamento del più semplice e comune modo dire “El tiempo es justiciero”. L’italiano “Il tempo è galantuomo” è simile ma più blando, in alcuni casi possono essere sinonimi “Tutti i nodi vengono al pettine”, “Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”ed altri ancora. Penso che ormai si sappia che amo proverbi e detti e quindi nessuno si dovrebbe meravigliare di questa apertura per un post che riguarda un paio di altri aspetti della percezione del tempo e del nostro rapporto con esso.
Comincio con il ritardo cronico che alcuni scienziati (?) da qualche anno a questa parte vorrebbero far passare per malattia o disturbo mentale, ma ufficialmente non è riconosciuto come tale. In rete si trovano pagine e pagine di giustificazioni per i ritardatari, modi per limitare i ritardi, suggerimenti di come trattare questi malati immaginari.
Francamente non li capisco in quanto in parte si rovinano la vita e spesso, facendo innervosire chi li aspetta, non migliorano certo i loro rapporti sociali. Certamente ci sono prassi consolidate e cattive abitudini che tuttavia nella maggior parte dei casi sono abbastanza facili da curare (anche se non è il termine più adatto, non trattandosi di una malattia).
Personalmente sono abbastanza puntuale (a tutti può capitare talvolta di far tardi) ed in tutte le attività che ho organizzato e continuo ad organizzare inizio in perfetto orario, a meno di casi eccezionali. Il risultato è stato che, dopo le prime esperienze, l’80% dei ritardatari abituali sono diventati puntuali e il 20% non si sono fatti più vedere. Non potendo accontentare tutti, penso che si debbano rispettare di più quelli che si sono dati da fare per arrivare in orario che quelli che se la prendono con comodo.
Per le cene uso il doppio orario: “apertura porte” (per aperitivo e chiacchiere) e “piatto in tavola” (si inizia a mangiare e non è garantito che si lasci qualcosa ai ritardatari). Anche questo sistema ha funzionato alla perfezione e chi cucina (nella fattispecie io) non deve accendere e spegnere i fornelli in continuazione per sincronizzarsi con i ritardatari ... questi mangeranno cibi freddi, scotti o troveranno i piatti vuoti. Vi assicuro che imparano presto.
Venendo alle escursioni, stesso sistema ma con una possibile scappatoia: chi è in ritardo (solo se si tratta di pochi minuti) può chiamare per frasi aspettare però paga il caffè a tutti. Anche questo metodo ha funzionato con i ritardatari che quindi avevano ben tre opzioni:
  • perdersi l’escursione
  • rincorrere il gruppo partito in orario
  • pagare il caffè a tutti (può risultare caro)
In linea di massima, dopo tanti anni di esperienza, posso affermare che puntuali e ritardatari possono pacificamente convivere a patto che i primi non aspettino e che gli altri non si offendano per non essere stati aspettati.
A proposito delle escursioni e del tempo, ecco un concetto che sembra sia particolarmente ostico per i “lenti”, pur essendo facilmente comprensibile e spiegabile con un semplice calcolo. Per chi non lo sapesse, ho guidato escursionisti per oltre 20 anni e posso garantire che all’atto pratico non esistono gruppi omogenei. Infatti, fra stato di forma, capacità fisiche e interessi ognuno ha il proprio ritmo ideale differente dagli altri. I più veloci sono costretti ad aspettare i più lenti, indipendentemente da chi siano quelli che procedono ad un passo diverso dalla media prevista. Se i “lenti” sono tali per l’incapacità di tenere il passo degli altri, una volta raggiunto il resto del gruppo vorrebbero riprendere fiato ed effettuare una pausa. I “veloci” dopo la sosta forzata per aspettare gli altri vorrebbero partire appena il gruppo si è riunito.
Voi vi siete riposati di più” opposto al “Vi abbiamo aspettato abbastanza” ...
Bianconiglio: Sono in ritardo! In arciritardissimo! (Alice nel paese delle meraviglie)

Visto che di solito si usufruisce di mezzi di trasporto comuni il tempo totale dell’escursione è identico per tutti e dovrebbe essere ovvio che chi impiega più tempo a completare il percorso avrà meno tempo per riposarsi (anche se presumibilmente è più stanco).
Analogamente molti sbagliano fin dall’inizio dicendo: “Andate avanti voi, ché noi siamo più lenti”. Assolutamente sbagliato ... i più lenti devono partire per primi, al loro passo, e i più veloci avranno senz’altro l’occasione di raggiungerli e superarli, aspettando di meno in occasione del successivo raggruppamento. Anche questa è matematica spicciola.
A freddo tutto ciò sembra logico (e lo è) ma nella maggior parte dei casi chi è in affanno, per di più innervosito dagli sguardi o altre manifestazione di insofferenza degli altri, spesso non coglie la sottile differenza fra aspettare e riposare.

giovedì 16 giugno 2016

"The Blues Brothers" (John Landis, USA, 1980)

Rivisto per la quarta volta, a distanza di una decina d’anni dall’ultima, e questa volta in versione originale The Blues Brothers mantiene intatto il suo appeal. Parlandone in giro mi sono reso conto che il film (cult per qualunque over 50) è quasi sconosciuto fra i più giovani, ma del resto lo sono anche molti dei tanti interpreti famosi della colonna sonora.
Molto del successo è dovuto all’esplosiva sceneggiatura di John Landis e Dan Aykroyd, il primo regista e il secondo co-interprete principale insieme con John Belushi. Questi con il suo fisico, la mimica facciale e l’aspetto assolutamente da antidivo ci ha messo molto del suo nelle vesti di Joliet Jake e, come spesso accade, è diventato un mito a seguito della sua morte per overdose di cocaina ed eroina meno di due anni dopo l’uscita del film. Di lui in effetti si ricordano solo questo e il meno conosciuto Animal House - nel quale ricopriva un ruolo secondario - guarda caso diretto dallo stesso John Landis.

Essendosi dedicato per lo più a commedie spesso demenziali molti hanno sottovalutato questo regista, ma ad un occhio attento appare chiaro che sa scegliere le inquadrature, valutare i tempi e dirigere gli attori in modo egregio.
Classe 1950 fece parte del gruppo che rinnovò completamente il cinema americano, insieme con Spielberg, Scorsese, Lucas, ecc. e si può dire che è cresciuto nell’ambiente cinematografico. Lasciata la scuola prima del tempo, cominciò a lavorare come fattorino per la 20th Century Fox, apparve (non menzionato) in Il buono, il brutto, il cattivo (1966) e C’era una volta il West (1968), a 20 anni era già assistente di produzione e al seguito di una troupe venne in Europa e vi restò lavorando come comparsa, controfigura e attore in vari spaghetti-western, e tornato negli States iniziò la sua carriera da regista nel 1973 con Schlock, commedia demenziale horror.
Tornando a The Blues Brothers, quanto più si sa di cinema e di musica, tanto più si apprezzano dettagli, le citazioni e le prese in giro. Già all’inizio tutta la sequenza della visita alla suora (da loro chiamata "il pinguino") viene proposta in chiave horror, con le riprese quasi verticali delle scale con l’incombente crocifisso, le porte che si aprono e si chiudono da sole, raggi di luce sinistra, la religiosa che si sposta senza muovere i piedi ... come un vampiro. Si potrebbe similmente commentare quasi qualunque altra scena trovando riferimenti a film specifici o stereotipi di genere come quelli relativi ai poliziotti, ai musicisti e ambiente country, gli inseguimenti, le fogne, gli attentati, e via discorrendo.
A tutto ciò si va ad aggiungere una straordinaria colonna sonora che include classici pezzi Rhythm and Blues, Rock'n'Roll, Soul interpretati da nomi famosi dei rispettivi generi e in vari casi “dal vivo”. Vari di loro infatti hanno partecipato al film in qualità di attori che tuttavia appaiono solo nella scena musicale, mentre altri si ascoltano solo in sottofondo come Robert Johnson, Otis Redding, Sam & Dave.
La mia preferita è senza dubbio Aretha Franklin che potete apprezzare un questo spezzone mentre si esibisce nel suo locale, con grembiule (ben macchiato) e in ciabatte, accompagnata dalle tre fantastiche ragazze del coro/ballerine (eccezionale la postina, in azzurro).
Senz’altro notevoli sono anche le performace di James Brown, Ray Charles, John Lee Hooker e Cab Calloway.
Come mio solito non mi soffermo sulla trama (gli interessati la troveranno facilmente) ma voglio concludere sottolineando lo spirito con il quale si realizzavano questi film negli anni ’80 con grande collaborazione di parenti e amici, anche quelli famosi. Quale esempio cito il caso del cameo dell’allora trentaquattrenne Steven Spielberg, già conosciuto in tutto il mondo per Lo squalo (1975) e Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977). 
Da menzionare sono anche le presenze di Carrie Fisher (la Principessa Leia della saga di Guerre Stellari) nelle vesti della misteriosa donna che tenta di ucciderli, l’allora famosissima modella Twiggy nei panni di un’affascinate giovane ragazza alla guida di un’auto sportiva di lusso (ancor più breve la sua parte ... pochi secondi alla stazione di servizio e giusto un paio più avanti), mentre fra le comparse ci sono anche lo stesso Landis e Judith Pisano, moglie di Belushi.
   

  • Se non avete ancora visto The Blues Brothers ... provvedete a questa vostra carenza.
  • Se già lo conoscete guardatelo di nuovo ... non vi deluderà, anzi lo apprezzerete di più.
  • Se siete in grado di affrontare la versione originale (e conoscete un po’ gli americani) vi divertirete ad ascoltare i vari accenti e John Belushi che si adatta a quello dei suoi interlocutori di turno.
The Blues Brothers(di John Landis, USA, 1980) 
sceneggiatura di John Landis e Dan Aykroyd * con John Belushi, Dan Aykroyd

lunedì 13 giugno 2016

Proverbi ... saggezza dei popoli

Sarà vero? Secondo me l’affermazione è molto vicina alla realtà, pur avendo degli ovvi limiti visto che le condizioni di vita sono molto cambiate nel corso dei secoli. Eppure, ancora oggi continuiamo ad usare, a proposito, detti latini vecchi di oltre 2000 anni. E poi ci sono quelli greci, quelli cinesi e praticamente se ne trovano in qualunque cultura di qualsiasi parte del mondo.
Come per la maggior parte dei miei post, anche in questo caso c’è una causa ed è stata una stampa della prima metà del ‘600 che ha attirato la mia attenzione al Rijksmuseum di Amsterdam, visitato la settimana scorsa.
Su quel foglio Claes Jansz Visscher (incisore, disegnatore e cartografo) ha rappresentato in forma caricaturale 8 proverbi con schizzi acquerellati, accompagnati dal relativo testo. Purtroppo i due olandesi ai quali ho mostrato disegni e didascalie non sono riusciti a comprendere tutto con esattezza in quanto si tratta di fiammingo antico. Non sono riuscito a trovare la traduzione neanche in rete, ma nel corso della ricerca mi sono imbattuto in un altro “gioiello”, ancora più affascinante: “Proverbi fiamminghi” di Pieter Brueghel il Vecchio (1559, olio su tavola, 117x163 cm). (foto in basso)



Nei tantissimi personaggi, animali, oggetti e situazioni rappresentati in questo dettagliatissimo dipinto tutti gli studiosi hanno identificato molte decine di proverbi, alcuni addirittura oltre 100. Qui di seguito propongo alcuni dettagli con traduzione e breve spiegazione dei detti.
   

   

   
Concludo con un proverbio spagnolo che sembra essere proprio quello del primo disegno dell'incisione in apertura ed il fatto è più che ragionevole considerato il dominio della Spagna nelle Fiandre fra il a cavallo fra il XVI e il XVII secolo:
Cuando guían los ciegos, ¡ay de los que van tras ellos!
(Quando guidano i ciechi, poveretti quelli che li seguono!)

sabato 11 giugno 2016

Amsterdam, a piedi e non in bici, e i suoi musei

Campo di grano con volo di corvi   (Vincent Van Gogh, 1890)
Sono convinto che per poter cogliere l’essenza, la storia e la vita di qualunque città la si debba percorrere in lungo e in largo, a piedi. La capitale olandese non fa eccezione e consiglio di non fare l’errore di girare in bici poiché ciò significherebbe vedersi sfrecciare ciclisti locali da ogni lato, rimanere intruppati in masse di turisti che non sanno dove andare, avere problemi di parcheggio (è proprio così), dover portare a mano la bici in varie strade del centro in quanto il transito in sella è vietato, non potersi fermare facilmente quando si vede qualcosa di interessante.
Passeggiando invece a piedi, in particolare lungo le sponde alberate dei canali, è molto più piacevole e rilassante, pur dovendo prestare una certa attenzione alle bici che quasi tutti i locali utilizzano. 
Dai ragazzi ai professionisti vestiti elegantemente, dagli anziani alle mamme con bici dotate di un grosso contenitore di legno (una specie di barchetta) davanti nel quale sistemano figli e/o spesa.
Appena fuori del centro storico, tuttavia ancora al centro, ci sono vari parchi con vasti prati che si affollano appena esce un po’ di sole e proprio per essere molto frequentati sono necessarie alcune limitazioni per garantire il quieto vivere. Ecco due divieti che ho aggiunto alla mia collezione di segnali “strani”, di quelli che non si trovano nel Codice della Strada.
   
Anche per i musei (cari ... 17,50 per il Rijksmuseum, 17,00 per il Van Gogh, 15,00 per il Marittimo o 12,50 per il nuovissimo MOCO con opere di Banksy e Warhol) ci sono particolarità alcune delle quali mi sono sembrate eccellenti idee. Per esempio, nel Museo Van Gogh è vietato fotografare ma insieme ai relativi avvisi si fa presente che le immagini di tutte le opere esposte sono liberamente consultabili e scaricabili dal sito ufficiale del Museo (il catalogo completo è disponibile solo nelle versioni inglese e olandese). Quali esempi vi propongo le immagini di un paio delle sue opere più famose (oltre a quella inserita in apertura) che ho scaricato in alta definizione, ma che ho ridotto per praticità. Nei file originali (circa 5MB, 3840 pixel di larghezza) è possibile apprezzare le singole pennellate come si si usasse una lente di ingrandimento, ma ovviamente i colori non potranno mai essere uguali agli originali
   
Altro esempio di libera circolazione di opere esposte viene dal Museo Marittimo, che tuttavia mi è sembrato un po’ disorganizzato e con oggetti male esposti pur avendo un edificio enorme a disposizione. Nella sala degli atlanti (1500-1700) questi sono esposti in varie vetrine che si illuminano premendo un interruttore ma, ovviamente si vedono - male - solo un paio di pagine o solo il frontespizio. Ma ecco la trovata geniale e lodevolissima: nella sala ci sono anche due schermi touch screen di circa 50” usando i quali è possibile sfogliare molti interi atlanti, alcuni dei quali anche di 500 pagine che appaiono appaiate come in un libro aperto (cosa necessaria in quanto molte tavole sono così disposte).
    
E non finisce qui ... nell’angolo in alto a sinistra di ogni visualizzazione si legge “send an email” e in effetti cliccando si accede ad una finestra nella quale si digita un indirizzo e si invia. In questo modo “mi sono inviato” varie mappe e qualche illustrazione originale ed interessante (alcune già pubblicate ieri). 

giovedì 9 giugno 2016

Idee per l'armadio di via Jeranto

Tornando brevemente all'armadio di via Jeranto e riprendendo il commento postato da Dario Russo nel quale proponeva di dipingerlo verde mimetico, vorrei fare alcune considerazioni e proporre altre soluzioni, già viste, che mi sono tornate in mente.
   
I colori mimetici suggeriti (verde e nero) andranno anche bene, ma solo se l'armadio sarà spostato a monte del sentiero. In caso contrario dovrebbe essere circondato da cespugli per "scomparire" veramente.
Restando le cose come stanno vedrei più qualche tonalità di azzurro che possa confondersi con il mare e/o il cielo alle spalle. Osando di più, e continuando a tener presente lo sfondo marino, perché non incaricare uno dei tanti giovani artisti per una decorazione più composita, artistica e casomai spiritosa?
Per chiarire quest'ultima idea, della quale non mi attribuisco certo la paternità, semplicemente l'ho vista messa in pratica in Nuova Zelanda, sono andato a recuperare varie foto scattate durante il mio soggiorno a Auckland, NZCi sono vari esempi di mimetismo urbano per cabine, armadi e quadri elettrici di varie forme e dimensioni, alcuni dei quali passano veramente quasi inosservati come quelli proposti in apertura del post. Non ne sono sicuro, ma per come sono realizzati, penso che sia un vero obbligo "mascherarli".


Agli antipodi rispetto al sensato suggerimento di Dario, c'e una recriminazione postata su FB di qualcuno che sostiene che sarebbe stato meglio lasciare in piedi il traliccio che così avrebbe coperto, almeno parzialmente, l'armadio. 
In parole povere si sostiene che sarebbe opportuno conservare brutture e rifiuti esistenti in modo che successivamente possano servire da schermo per nasconderne altri ... idea a dir poco geniale!