martedì 27 febbraio 2018

Trovare trattorie, osterie o bettole “originali” è sempre più difficile!

I motivi sono tanti. Saltando a piè pari tutti quelli relativi a tasse e requisiti come i vari tipi di bagni, spogliatoio personale, diversi tipi di frigo, HACCP, ..., ce ne sono un altro paio che, seppur in modo opposto fra loro, condizionano l’originalità dei locali in questione.
Comincio con quello più “sgradevole”, gli arroganti e scostumati, spesso incolti arricchiti (tuttavia miserabili) che “per moda” vanno in trattoria pretendendo di avere un servizio da ristorante, si comportano in dispregio di ogni basilare regola di seppur minima educazione, trattano il (ridottissimo) personale come se si stessero rivolgendo a degli schiavi e, se sono in gruppo, anche 4 bastano, sono inutilmente ed esageratamente rumorosi. Chiedono di cambiare posate più volte, piatti extra, centinaia di tovaglioli, doppi bicchieri, ecc. senza rendersi conto del fatto che molte di queste attività sono a gestione familiare e cucina, pulizia e servizio ricadono solo su tre persone, delle quali almeno due impegnate su più fronti.
Dopo aver terminato il pasto, anche se vedono gente in attesa, restano al tavolo a chiacchierare senza curarsi del fatto che trattorie e simili contano sul fatto di fare più turni e quindi non si possono permettere di avere i pochi tavoli occupati per ore intere. Infine, dopo essersi ben abbuffati pagando quattro soldi rispetto al loro standard abituale in ristorante, se ne vanno lamentandosi del servizio e lasciando (forse) una mancia, ovviamente da pezzenti (senza voler offendere i veri mendicanti), che anche nel caso di un conto per una decina di persone è inferiore a quanto pagano per un solo drink in un locale “ber bene”.
Questo comportarsi da barbari (“tanto è una trattoria”) condiziona ovviamente la cucina, il servizio, i costi e quindi i prezzi, la disponibilità del personale e la tranquillità del locale, rendendo quindi molto meno piacevole il pranzo degli altri avventori.
L’altro problema è di genere completamente opposto e non sempre è negativo per i gestori, ma lo è solo per i vecchi clienti, abituati ad un certo tipo di cucina e di ambiente. Molte trattorie “storiche” si sono fatte un buon nome, sia per la cucina che per l’ambiente familiare e genuino, proponendo piatti “poveri” che spesso non si trovano facilmente nei menù, con porzioni relativamente abbondanti e prezzi contenuti.
Un po’ per la crisi e un po’ “per moda” questi locali, sia in città che in paesini di campagna, nel corso degli ultimi anni hanno attirato l’attenzione non solo di chi vuole risparmiare pur mangiando bene, ma anche di veri buongustai e di persone alla ricerca di sapori antichi e genuini con l’ovvia conseguenza di un’eccessiva notorietà che in alcuni casi continua ad aumentare in forma esponenziale specialmente se i loro nomi finiscono su guide gastronomiche come “Osterie d'Italia”, “Gambero rozzo” e simili.
Anche evitando i barbari (che con un po’ di fermezza possono essere dissuasi) per i gestori resta il problema di un cambio radicale nell’organizzazione:
si deve produrre molto di più nella solita cucina di spazio limitato, i piatti non sono sufficienti, così come le posate (specialmente se si cambiano), molti richiedono il doppio bicchiere (altro spazio, altro lavoro), i frigoriferi devono essere più grandi e separati, anche le bevande occupano molto spazio in più per i vini imbottigliati, l’acqua, la CocaCola (nelle sue varie versioni Light, Zero, ecc.) mentre una volta la scelta era limitata a vino (dalla damigiana o dal barile) o acqua (dal rubinetto) = zero costi di refrigerazione e poco spazio per lo stoccaggio.
Tutti avrete notato che ormai molte nuove pseudo-trattorie hanno menù (e in più lingue), camerieri con grembiuli o almeno “in divisa”, bicchieri a calice di tutte le dimensioni, non propongono vino locale a quartini, mezzi o litri e quello che più mi tiene lontano da questi falsi locali sono i piatti con spigoli e quelli a cappello di prete rovesciato!

Infine, c’è il problema - comune a tutto il settore della ristorazione - delle nuove generazioni abituate al junk food e cresciuti a merendine confezionate e delle allergie ed intolleranze alimentari sempre più frequenti (anche se penso che molte siano vizi, visto che spesso le eventuali conseguenze sono solo un po' di "pesantezza"). Come gli altri esercizi, anche le trattorie sono ormai soggette a mille richieste di variazioni e/o "senza" (aglio, cipolla, peperoni, formaggio, pepe o peperoncino, ecc.), ma questo argomento necessita di post apposito.
Tutto ciò ha comportato un drastico cambio di ambiente nel senso di perdita di genuinità, notevoli rialzi dei prezzi, riduzione delle porzioni medie e appiattimento dei sapori nonostante le fantasiose descrizioni dei piatti, quasi da nouvelle cuisine.
due momenti dello stesso pasto (per una persona!) al Tunel de Alfama (maggio 2017)
nei 6,50 Euro era compreso anche pane, dolce e caffé ed il mezzo litro di vino

Per mia precisa scelta rifuggo da questa nuova interpretazione dei termini trattoria e osteria e continuo a frequentare assiduamente e con soddisfazione quelle più tendenti alle bettole (nel miglior senso della parola) dove non esistono menù ma si propongono i “piatti del giorno” (vedi foto di apertura, Tunel de Alfama, Lisbona) fra i quali c’è sempre una minestra o zuppa come lenticchie e scarole,  màccu di favi, minestra maritata, pasta e cicerchie ... e si possono ancora trovare piatti veramente tradizionali come frittura di mazzamma, braciole di cotiche, cassoeula, trippa e fagioli, dove i piatti sono scompagnati, si ha un solo bicchiere e le posate non si cambiano.

Glossario (da Treccani.it)
  • trattorìa – Pubblico esercizio, con una o più sale, dove si possono consumare pasti completi; ha in genere tono più modesto rispetto al ristorante, ma spesso il nome di trattoria è assunto anche da ristoranti caratteristici di alto livello.
  • osterìa – Nel passato, locanda dove si poteva mangiare e trovare alloggio. Oggi, locale pubblico, di tono modesto e popolare, con mescita di vini e spesso anche con servizio di trattoria.
  • béttola – Osteria d’infimo ordine con spaccio e mescita di vino e talora con servizio di cucina; quasi sempre spregiativo. 

mercoledì 21 febbraio 2018

L’ultimo film di Igmar Bergman, gli svedesi e i registi crudeli


70 Fanny & Alexander (Ingmar Bergman)
tit. or. Fanny och Alexander” (Sve, 1982)
con Bertil Guve, Pernilla Allwin, Kristina Adolphson
4 Oscar (Miglior film non in lingua inglese, fotografia, scenografia, costumi) e 2 Nomination (regia e sceneggiatura)
IMDb  8,1  RT 100%

Ultima regia di Ingmar Bergman, ancora una volta su una sua sceneggiatura originale, ancora una volta con Sven Nykvist come direttore della fotografia. In questo caso non sono tanti i “soliti” attori del circolo di Bergman, ma c’è da segnalare l’ultima apparizione del sempre eccellente Gunnar Björnstrand, seppur in una parte molto secondaria.
Film insolito per Bergman, quasi un gran finale, con un budget spropositato per l’epoca (6 milioni di dollari) e un cast di centinaia di persone, agli antipodi dei suoi tanti film con solo 3 o 4 personaggi principali e poche comparse. Lo si potrebbe quasi vedere come un film corale, viste le varie decine di persone che compongono la famiglia Ekdahl, alla quale si aggiungono numerose cameriere e cuoche, il personale del teatro (attori e tecnici) e altri aggregati come il vescovo e l’usuraio ebreo Isak Jacobi (Erland Josephson), amante della matriarca.
Fanny & Alexander, che pur ha ottenuto ottime recensioni e ben 4 Oscar (Miglior film non in lingua inglese, fotografia, scenografia, costumi e altre 2 Nomination per regia e sceneggiatura), mi è sembrato soffrire della “indecisione” della produzione. Chiarisco: la versione cinematografica, già di per sé abbastanza lunga con le sue 3h08’, è una riduzione di quella integrale (director’s cut) di ben 5h12’, passata in televisione come mini-serie in due puntate. Non tutto quello pensato per il cinema va bene in televisione ed una sceneggiatura nata con l’obiettivo di una serie televisiva (al di là del formato) non può essere ridotta del 40% senza perdere qualcosa. Di conseguenza, nella versione cinematografica (quella che ho guardato) sembra che talvolta Bergman si dilunghi troppo su certi avvenimenti, per poi saltare di punto in bianco da una situazione all’altra a distanza di vari mesi. Tuttavia la lunghezza e il gran numero di personaggi forniscono la possibilità di raccontare tante storie di tipo assolutamente diverso, dalle scene quasi da commedia a quelle inquietanti nella spoglia casa/”prigione” del perfido vescovo Edvard Vergerus (Jan Malmsjö) che mi ha fatto tanto pensare a Robert Mitchum nel capolavoro che è The Night of the Hunter (1955, di Charles Laughton, tit. it. La morte corre sul fiume).
   
Altro argomento interessante è quello dei colori predominanti nelle scene che si svolgono nell’enorme magione della famiglia Ekdahl. Si inizia con il rosso (giustificato dal fatto che è Natale), poi si passa al nero per un lutto e si finisce con la festa per le due neonate per la quale vestono tutti in bianco. (vedi foto)
      
In varie situazioni sono le stanze e gli arredi e non gli abiti a fornire i colori preponderanti, di nuovo con tutta la gamma di rossi a casa Ekdahl (ricorda molto le scene di Sussurri e grida, 1973) tanto da far impallidire il buon Pedro Almodóvar e del grigiore assoluto della casa del vescovo.
   
Resta senz’altro un buon film e le altalenanti vicende di ogni genere fanno “pesare” le oltre tre ore di Fanny & Alexander meno dell’ora e mezza o 1h40’ di altri film di Bergman, esclusivamente drammatici e claustrofobici.

Avendo concluso questo blocco di 7 film del regista svedese, che si vanno ad aggiungere ad un’altra decina di sue pellicole già viste, al di là del giudizio generale che sto ancora elaborando, mi viene spontaneo chiedermi: gli svedesi nel corso dei secoli e nei vari ambiti sociali sono veramente come la media di personaggi proposti da Bergman, o è lui che tratta solo sceneggiature piene di persone che, a dispetto di un’apparente libertà di pensiero e di comportamento, soffre di gelosie, medita vendette, tradisce senza il minimo rimorso, non trova vere ragioni di vita, non ha precise credenze religiose, attraversa lunghi periodi di depressione, e via discorrendo?
Si sa che lui stesso, a seguito dei problemi con il fisco, fu ricoverato per oltre tre mesi in una clinica psichiatrica per depressione e da più parti ho letto che sul set quasi martirizzava attori e tecnici, facendoli a lavorare per ore infinite, talvolta al freddo ... ma della “crudeltà” dei registi si parla spesso (e pare che ciò che si dice sia vero) e ce ne sono tanti che in quanto a questo hanno pessima fama, perfino fra i più famosi, come Kubrick, Hitchcock, Kurosawa, Polanski, Herzog, Coppola, ...

mercoledì 14 febbraio 2018

Fightin' Texas Aggie Marching Band

A chi si è lasciato ingannare dai titoli a pompa ed ha guardato qualche deludente video delle “fantastiche” (assolutamente nella norma) cheerleader coreane alle Olimpiadi invernali, suggerisco di ri-farsi gli occhi con una esibizione della Fightin' Texas Aggie Band, nell’intervallo di una partita di football americano. (guardate il video in basso full screen, è in HD)
Fondata nel 1894, è la più grande marching band al mondo, composta dagli allievi (di ambo i sessi) della scuola militare Corps of Cadets, ed è la banda ufficiale della Texas A&M University. Per questo motivo si esibisce in occasione di tutte le partite casalinghe della squadra di football e talvolta anche in quelle in trasferta, oltre che in tante altre parate militari.
Oltre alla marcia in perfetta sincronia, è da notare la disposizione degli strumenti che contribuiscono a creare schemi e motivi geometrici. Solo seguendo con lo sguardo grancasse, bassotuba e tromboni si riesce a capire (ma non sempre) chi si muove, chi sta fermo e chi piroetta, ma ci sono anche tante trombe e tamburi che si notano di meno (si vedono bene nella foto di apertura).
Per realizzare le complicate e incredibili manovre fatte di intrecci, incroci, conversioni, inversioni, composizioni di figure geometriche e “grovigli” di vario genere, i membri della banda si esercitano fino a 40 ore alla settimana oltre a seguire tutti gli altri studi accademici. Un plauso particolare dovrebbe andare ai vari “coreografi” (probabilmente tanti diversi nel corso degli anni) che hanno ideato le routine che compongono questa esibizione di circa 7 minuti.
Essendo già difficile realizzare queste coreografie con le mani libere, pensate a farle marciando a tempo, suonando e incrociandosi con gli altri senza urtarsi pur dovendo gestire strumenti abbastanza ingombranti. (ingrandite ed analizzate la foto in basso ...) 

Godetevi lo spettacolo! 

domenica 11 febbraio 2018

Talvolta è un sacrilegio non mangiare con le mani ...

... nonostante il Galateo lo proibisca.
Dalle mie parti si diceva: “pollo, pizza e pane se magnano cu ‘e mmane”. Al di là dell’ovvio pane, della pizza (per me ognuno fa come vuole, la sostanza non cambia molto e comunque non si spreca niente) e del pollo del quale, a meno che non sia veramente ruspante, la carne si può staccare dall’osso facilmente (per quelli di batteria basta guardarli ... e se i pezzi sono in una minestra o in brodo si trovano già ossa e carne che navigano separatamente), ci sono dei tagli di carne per i quali non ci si può astenere dall'usare le mani a meno che non si sia tanto insulsi da lasciarne una parte, spesso la migliore! Chi usa sempre e solo forchetta e coltello non sa cosa si perde, ci sono alcuni cibi che necessariamente devono essere mangiati (spesso spolpati) aiutandosi con le mani. 
E ciò non vale solo per le tracchiolelle, costine o puntine che dir si voglia (foto d'apertura), per l'osso delle costolette di maiale (al sud, quelle che  al centro nord chiamano braciole, ma per noi meridionali le braciole sono involtini come quelli della foto a sx, di carne di manzo o di vitello, oppure di cotica in Campania o di cavallo in Puglia) ma anche e soprattutto per coniglio, capretto, agnello e capra ... e c’è poco da aggiungere o spiegare.
In quanto al pesce quello fritto spesso è meglio mangiarlo con le mani che combattere inutilmente con forchetta e coltello (che non dovrebbe mai essere usato). Un esempio classico sono le aguglie fritte che, dopo aver sfilato il becco dalla parte caudale, dovrebbero essere tenute per le estremità mentre con la bocca si staccano i filetti prima da un lato e poi dall’altro (foto sotto a sx). Ma anche alici, sardine, o i chicharros canari (alias carapaus portoghesi), petinga, jaquezinhos, gueldes, o le nostrane fragaglie e fritture di paranza non meritano l'affronto del metallo.
   
In quanto alle verdure, perfino il Galateo consente di usare le mani, ma solo per il pinzimonio ... e i carciofi ripieni (mammarelle 'mbuttunate, foto sopra a dx) come si dovrebbero mangiare secondo questi geni? O ci dovremmo rinunciare?
Per mia fortuna e “saggezza” bazzico nei mercati, mangio cibo da strada (che ora è stato sdoganato come street food, similmente alle classiche fritture che vengono proposte come tempura, che ridicolaggine!) e frequento quasi esclusivamente trattorie, osterie, bettole e simili, dove chi mangia i suddetti cibi con le mani viene visto come un intenditore ed è sempre il benvenuto. Ricordo che una volta fui addirittura “sgridato” per non aver ben succhiato il midollo da un osso di capra ... ovviamente a Casa Tata a Punta Brava.
In chiusura, aggiungo questa foto che mostra come dovrebbe essere piegata una vera pizza (non quelle reclamizzate come “croccanti” o spesse come una focaccia) da mangiare per strada, vale a dire a libretto, in quattro.

mercoledì 7 febbraio 2018

“Non ti preoccupare della trave nel tuo occhio, fai notare le pagliuzze negli occhi degli altri!”

Antico detto dei sudditi dell’Impero Britannico che, ovviamente, si sono sentiti in dovere di cambiare l’originale della Bibbia: "Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?" (Luca 6,41)

E’ dai tempi in cui un altro “giornalista” inglese (Jamie Oliver) fornì la ricetta della paella con chorizo che non c’era stato simile sollevamento popolare in difesa della vera identità spagnola. Stavolta si tratta dell’improvvido Chris Haslam, caporedattore della sezione viaggi del quotidiano The Times, il quale con il suo articolo “How to be Spanish” è diventato (probabilmente involontariamente) una stella del web scatenando commenti, ripicche e prese in giro a più non posso su tutti i social.
La maggior parte dei lettori l’hanno visto come una ridicola, se non offensiva, raccolta di cliché assolutamente fuori dal tempo. Dice che gli spagnoli praticano il turpiloquio e giustamente (ahah) si sente spesso joder e coño, ma nessuno ha mai sentito dire fuck (e varianti) a un inglese! Essendo un grande enologo - come quasi tutti gli inglesi - accusa gli spagnoli di bere il vino rosso freddo (provate a berlo a temperatura ambiente in un’estate andalusa ... a 40° e oltre). Consiglia una giusta abbronzatura per confondersi con i locali (che secondo lui passano le ore stesi al sole a non far niente) ... ma non sono gli inglesi che arrivano bianco latte e dopo un paio di giorni di lettino sono rosso peperone o arancione aragosta? Gli spagnoli sono morenitos originali e nelle ore più assolate stanno (saggiamente) a fare la siesta ... all’ombra.
   
Il problema della mancata ironia del pezzo di Haslam è che, come sottolinea il suo compatriota e collega Simon Hunter (da 18 anni in Spagna), si dà la zappa sui piedi, essendo artefice di clamorosi autogol a iniziare dall’imperdonabile affermazione: “Forget Anglo-Saxon notions of politeness, discretion and decorum.” (dimenticate le nozioni di educazione, discrezione e decoro anglo-sassoni). In merito a ciò Hunter gli chiede se sia mai stato a Magaluf (Maiorca, Baleari) in alta stagione, se hai mai cercato video di “balconing” e/o “mamading” (non approfondite il secondo termine se siete pudichi ...), attività conseguenti ai loro indecenti modi di bere e alla loro “educazione, discrezione e decoro” .... 
Al lato, manifestazione a Barcellona contro il turismo de borrachera (turismo alcolico, letteralmente "di ubriacatura", nel quale gli inglesi eccellono)
Qualcuno si è anche sentito in dovere di sottolineare la “cultura” degli inglesi (che a loro discolpa possono dire di discendere da popolazioni barbare), i quali rappresentano ben lo 0,35% dei visitatori del Prado (il museo più importante di Madrid) contro il 9,71 degli italiani e il 5,30 dei francesi.
Si deve tuttavia onestamente riconoscere che Haslam, messo alle strette e di fronte alle evidenze, ha scritto un ulteriore articolo scusandosi e dicendo che il suo humor (tutto britannico) era stato frainteso ...
Si potrebbe continuare, fra botte e risposte, fra il serio e il faceto, fra atteggiamenti pericolosi o assolutamente innocui, con l’accusa di mangiare a colazione pane e sobrasada (ottima) dimenticando che l’English Breakfast include uova fritte, salsicce, pudding, pancetta, fagioli e altro, di avere la mania di mangiare tutto ciò che c’è nel piatto (che male c’è?) cosa che Haslam giustifica con il fatto che in Spagna si pativa la fame (???), di abbracciare e baciare altri clienti in un bar e, se donna, la necessità di avere un ventaglio!
   
In qualunque (in)civiltà ci sono buoni e cattivi, nessuno si può atteggiare a maestro di vita ... e specialmente gli inglesi!

giovedì 1 febbraio 2018

burro vs olio - gastronomia internazionale al cinema

Ieri, costretto in casa da forti ed imprevedibili acquazzoni intermittenti, mi sono intrattenuto a guardare due film gastronomici di taglio molto, molto diverso. Ho cominciato con Politiki kouzina (Tassos Boulmetis, Gre, 2003, tit. it. “Un tocco di zenzero” tit. int. “A Touch of Spice”) e ho continuato con il ben più conosciuto Julie & Julia (Nora Ephron, USA, 2009).
Il primo esalta la cucina turca e quella greca, mentre il secondo narra la vera storia della donna che ha introdotto la cucina francese nelle case americane: Julia Child


I film confermano la divisione dell'Europa nell'Atlante degli Stereotipi creato dall'artista bulgaro Yanko Tsvetkov, il quale propone 20 modi diversi di farlo. Al di là del valore dei film, in quello greco, la sola vista della colorata varietà di pietanze dal chiaro aspetto mediterraneo mi ha provocato un improvviso aumento della secrezione salivare (= acquolina in bocca) e alla visione dell'interno del negozio di spezie potevo immaginare la miscela di odori. Al contrario, la quantità esagerata di burro utilizzata dalla Child era per me quasi disgustosa e mi chiudeva lo stomaco all'istante. Per dare un’idea della “mitizzazione” del burro da parte della scrittrice-chef riporto un paio di sue famose frasi: "con sufficiente burro, qualunque cosa è buona!" e "se temete il burro, usate la panna" (bel consiglio!).
  
Da quando sono amministratore unico della mia dispensa (vari decenni), in cucina non sono mai entrati né burro né panna! Solo olio di oliva e, a volte, sugna (strutto) ... questo sì! Alla fantasiosa e arguta Child devo comunque riconoscere il merito di altri frasi "storiche" che condivido in pieno:
  • è difficile immaginare una civiltà senza cipolle
  • buona cucina non significa cucina elaborata
  • a una certa età non si dovrebbe sprecare il tempo bevendo vino cattivo

Pur concedendo che delle buone ricette possano includere il burro, non capisco come si possa basare un'intera cucina (come quella francese, ma gli altri paesi mitteleuropei non sono molto diversi, solo meno creativi) sul burro, che spesso sovrasta altri sapori, specialmente se chi cucina non è esperto. 
Tempo fa scrissi un post in merito ad una ipotetica "sfida" fra tapas e dim sum ma se volessi aggiungere come terzo contendente le meze (antipasti misti, tradizionali delle cucine del mediterraneo orientale come quella greca, turca, libanese, cipriota, ...) non ci sarebbe assolutamente storia. 
 
Sento sempre più l'impellenza di tornare nel vicino Oriente!